…che dopo tanto sbandare
È appena giusto che la fortuna li aiuti
come una svista
come un'anomalia
come una distrazione
come un dovere
(Smisurata preghiera)
volendo riflettere su cosa ha rappresentato per noi Fabrizio De Andre, occorre farlo partendo dal nostro modo d’essere: diffidenti, schivi all’apparenza ma curiosissimi verso il prossimo, sarcastici e restii. Liberi di prenderci in giro e dissacrare e, al contempo, violentemente permalosi se a farlo sono “foresti”.
Sembriamo timidi, in realtà si tratta di un’avversione smodata verso chi è sguaiato, eccessivamente estroverso soprattutto nel manifestare i sentimenti.
Combattenti e marinai, coltivatori di terre strette tra mare e monti ispidi, quindi avare di spazi dove ricavare grandi quantità: per questo siamo ritenuti tirchi… noi diremmo parsimoniosi. Costretti a fare i conti con i diversi prima di chiunque altro, per ragioni geografiche con i monti ad impedire coabitazione a Nord e l’universo aperto in faccia attraverso il mare.
Dalle invasioni saracene e dal porto, storicamente coacervo di mille culture e sbarchi da ogni dove, nasce l’apparente diffidenza ma anche la naturale curiosità nei confronti dell’estraneo, l’abitudine forzata a confrontarsi con altre culture e religioni… “genti diverse venute dall'est” (testamento di Tito). Di converso la gelosia per le tradizioni.
Cosa c’entra Fabrizio in questo guazzabuglio di contraddizioni? tutto!
perché ha incarnato un modo d’essere, la sua essenza, in tutte le sue molteplici sfaccettature:
curiosità spasmodica mascherata in diffidenza, ruvidezza dei modi accompagnata da immenso trasporto verso storie ed avventure di personaggi e popoli mai conosciuti. A questo ha saputo aggiungere una sensibilità unica capace di portarlo a identificarsi, da ereditiere e figlio della borghesia danarosa, con gli scarti della società: assassini, vagabondi, prostitute, minoranze ed eretici, rivoluzionari o aridi di spirito, sono i personaggi raccontati da Faber.
Scovati in giro per il mondo da autori diversissimi che ha analizzato con maniacale dettaglio, sottolineando mille volte i passaggi nei loro testi, traducendo e mettendo in musica.
Con il talento, unico, di rendere il prodotto finale infinitamente migliore dell’originale da cui ha copiato.
Naturalmente Fabrizio va inquadrato nel suo tempo, gli anni ’60 e ’70; le pulsioni politiche e ideali del ’68, la conseguente disillusione per i tradimenti della storia, il disprezzo per gli ulteriori conformismi prodotti da una società in grado di digerire tutto.
La generazione beat e la collaborazione indimenticabile con Fernanda Pivano del “Suonatore Jones” ma anche (dal mio punto vista il suo capolavoro) dell’album “La buona novella” con il suo indimenticabile inno laico alla Vergine Maria, associata in altri brani dello stesso lavoro ai ladroni in croce.
“quando scrissi la Buona Novella nel 1969, si era quindi in piena lotta studentesca e le persone meno attente, che poi sono sempre la maggioranza di noi. Compagni, amici coetanei considerarono quel disco come anacronistico. Mi dicevano: “ma come noi andiamo a lottare nelle l’università, fuori dall’università contro abusi e soprusi e tu ci vieni a raccontare la storia, che peraltro già conosciamo, della predicazione di Gesù Cristo…e non avevano capito che la Buona Novella voleva essere un’allegoria, era un’allegoria che si precisava nel paragone tra le istanze migliori e più sensate della rivolta del ’68 e istanze, dal punto di vista spirituale ma dal punto di vista etico sociale direi molto simili che un “signore” 1969 anni prima aveva fatto contro gli abusi del potere, contro i soprusi dell’autorità in nome di un egalitarismo e di una fratellanza universale. Si chiamava Gesù di Nazareth e secondo me è stato ed è rimasto il più grande rivoluzionario di tutti i tempi. E non ho voluto inoltrarmi in percorsi, in sentieri per me difficilmente percorribili come la metafisica o addirittura la teologia, prima di tutto perché non capisco niente, in secondo luogo perché ho sempre pensato che se Dio non esistesse bisognerebbe inventarselo il che è esattamente quello che ha fatto l’uomo da quando ha messo i piedi sulla terra. Ho quindi preso spunto dagli evangelisti così detti apocrifi, apocrifo vuol dire falso; in effetti era gente vissuta, viva in carne ed ossa. Solo che la Chiesa mal sopportava fino a qualche secolo fa che fossero altre persone, non di confessione cristiana, ad occuparsi appunto di Gesù. Si tratta di scrittori e di storici arabi, armeni, bizantini, greci che nell’accostarsi all’argomento e nel parlare della figura di Gesù di Nazareth lo hanno fatto direi addirittura con deferenza, con grande rispetto tanto è vero che ancora oggi proprio il mondo dell’Islam continua a considerare subito dopo Maometto e prima ancora di Abramo, Gesù di Nazareth il più grande profeta mai esistito, laddove invece il mondo cattolico continua a considerare Maometto qualcosa di meno di un cialtrone…e questo direi che è un punto che va a favore dell’Islam, quello serio…non facciamoci delle idee sbagliate…”
L’attualità di queste parole è impressionante se pensiamo ai problemi della società di oggi, alla necessità di rispetto e comprensione reciproci tra culture e mondi che poco hanno in comune, vivendo la contemporaneità in epoche diverse, che si stanno allontanando col passare del tempo invece di comprendersi.
Il “sogno di Maria”: una preghiera laica, una magia capace di commuovermi alle lacrime dovessi ascoltarla mille volte in un giorno
e la parola ormai sfinita
si sciolse in pianto,
ma la paura dalle labbra
si raccolse negli occhi
semichiusi nel gesto
d'una quiete apparente
che si consuma nell'attesa
d'uno sguardo indulgente.
Tornando a quello che Fabrizio rappresenta per Genova ed i genovesi, penso di poter riassumere il tutto con un ossimoro: anarchica appartenenza. Il rifiuto dell’omologazione e la ribellione rispetto al conformismo borghese delle sue origini, lo hanno portato a rifugiarsi nelle bettole e nei bordelli del più grande, contraddittorio e sgangherato centro multiculturale d’Europa: i vicoli del centro storico.
Questo rifiuto, però, non ha impedito a Fabrizio di partecipare, identificandosi, alla città e alle sue espressioni popolari come il tifo sfegatato per il Genoa CFC, nobile decaduta a cui tanti genovesi riservano un amore disperato, costantemente tradito da infinite vicissitudini e sconfitte. Invece di allontanarsi, però, sono legati alla loro squadra in maniera indissolubile: “più mi tradisci più ti amo” recita uno striscione. De Andrè disse un giorno: “al Genoa scriverei una canzone, ma non posso perché sono troppo coinvolto”.
È poi fuggito in Sardegna affascinato ed immedesimato con la cultura isolana, così simile a quella ligure con le sue contraddizioni, fino ad arrivare a testimoniare a favore dei suoi stessi rapitori nel processo conseguente il loro arresto.
Anarchico, poeta maledetto, alcolista, puttaniere e sarcastico… blasfemo ma attratto dalla dimensione storica della religione, sempre dalla parte degli emarginati e gli oppressi come gli indiani del fiume Sand Creek.
Infinita sensibilità che, da anarchico, gli ha permesso di appartenere alla nostra gente come nessun conformista, sia esso artista, politico o imprenditore, avrebbe potuto fare: grazie Faber.
A Genova si dice:
sono come l'asino
che porta il vino e beve l'acqua
Grazie Fabrizio, daggheee Zena!