Incontro Torino- Genoa. Siamo sullo 0 – 0 ed è il 93°.
Dalla tre quarti la palla sta per raggiungere Radonjic, ma proprio mentre il suo piede educato la controlla e la sua mente vivace progetta qualcosa di speciale… improvvisamente, senza motivo e senza preavviso, scatta una nuova Ora Legale, e mentre lo spazio e il tempo si riassestano nella nuova dimensione, tutti i diligenti spettatori di uno stadio stupefatto mettono mano agli orologi e spostano le lancette avanti di un’ora.
Anche l’arbitro Chiffi, severo ma (abbastanza) imparziale, è colto di sorpresa, e sconcertato non sa che fare: il Var tace e nel dubbio, per evitare critiche e prevedibili sanzioni, fischia tre volte e la chiude lì.
La partita finisce 0 – 0, com’è giusto che sia, non tanto per i non-meriti delle squadre, ma per l’orrore di un incontro che andrebbe cancellato da tutti gli almanacchi planetari.
Tutta questa immaginaria ricostruzione dei fatti mi serve solo per affermare che la sconfitta non è altro che un misero dettaglio, il flash di un attimo che ha premiato il Toro, ma che avrebbe potuto anche gratificare il Genoa… anzi no, questo non poteva succedere, perché se oltrepassi la metà campo solo per caso, e l’ultima volta che hai tirato in porta è accaduto a Roma la settimana prima, non puoi pretendere di trovare l’alba dentro l’imbrunire (cit.).
Questa overdose di passaggi all’indietro, questa ragnatela che sfinisce e imbambola gli avversari, mi ricorda i discorsi del povero Moro ai congressi Dc, in cui parlava per 7 ore di seguito e alla fine, per lo stordimento, nessuno aveva più la forza di replicare.
Gilardino sembra uscito dal famoso libro di Maffei “Elogio della lentezza”, e con coerenza sostiene l’insostenibile fermezza degli esseri in mezzo al campo.
Organizza una realtà latente che ipnotizza e annoia spettatori e avversari, e che per risolversi avrebbe bisogno del lampo che abbaglia, che sfrutta l’inganno e lancia una freccia verso il bersaglio, ma non abbiamo né Guglielmo Tell né Robin Hood, e nemmeno il dardo che trafigga gli incauti nemici: Albert non basta.
Manca il colpo di genio, la vivacità, lo scatto nel vuoto di chi sa smarcarsi, e soprattutto manca una riconoscibile identità di gioco, uno schema nuovo inventato e studiato, diverso dall’usato sicuro di un catenaccio che incatena sì il gioco, ma anche la passione faticosamente recuperata dopo l’era glaciale preziosiana.
Anche in serie B è stato uguale, e la benvenuta promozione deriva dalla qualità degli attori e dalla lunghezza della panchina, non certo dal gioco di squadra che il simpatico e onesto Gilardino (non) aveva elaborato.
Sono abbastanza vecchio per ricordare il Padova di Nereo Rocco che nel 1958 arrivò terzo randellando perfino l’erba, ma aveva dietro un Blason che sembrava Vandereycken, con i suoi lanci perfetti a Brighenti e a un certo Hamrin che all’Appiani ne fece 4 al Genoa.
Lo so, mancano gli interpreti giusti per sperare in un Genoa che giochi a viso aperto, rischiando sì di perdere ma anche di vincere, ma intanto è uno strazio passare 90 minuti a sperare che finisca presto e che la difesa tenga, e a domandarsi che razza di pianificazione è stata fatta con questi nuovi incomprensibili acquisti.
Non si tratta di auspicare le magliette sudate o i vuoti a perdere di inutili corse aggressive, ma di un po’ di coraggio e di inventiva, perché al centesimo passaggio all’indietro non è solo la palla a rinculare, ma anche le aspettative, i progetti, le illusioni, le speranze di avere una squadra che negli avversari crei timore, e non l’incitamento a sfondare la grande muraglia che tanto, prima o poi, per stanchezza o per disguido, lascerà una breccia sguarnita.
Per fortuna, queste mie farneticazione mi dimostrano che non capisco un cazzo di calcio, perché durante la partita con il Toro ho tenuto in sottofondo una Tv in cui tecnici e giornalisti si mostravano soddisfatti della situazione in campo, come se Gilardino avesse vinto una difficile partita a scacchi, a parte l’incidente finale che giustamente non ha cambiato la loro opinione positiva, ma neanche la mia negativa.