DaniloLR Sarebbe da fare un sondaggio: quanti di noi seguirebbero ancora il calcio se non ci fosse il Genoa?
Purtroppo Danilo, investono trilioni per trasformare definitivamente il calcio da sport identitario a business globale.
“Vogliamo le nostre fredde notti a Stoke”, recitava lo striscione di un tifoso del Chelsea durante le proteste contro la Superlega. Quel codice di appartenenza condiviso che unisce generazioni, quartieri, classi sociali è l’ultima diga a opporsi a risorse immani investite per sostituire – ad esempio – l’idolatria verso il “campione” al tifo tradizionale per la squadra.
Stanno cercando, giorno dopo giorno, mercato dopo mercato (non a caso lo odio, a prescindere dal fatto che si venda a profusione), di espropriare il senso di appartenenza alla squadra che precede il risultato e sopravvive alle sconfitte.
Il “nostro modo” di seguire il calcio non sta finendo per esaurimento, ma per esproprio. Lo smontano pezzo dopo pezzo, lo svuotano di senso e lo riconfezionano in formato premium. Il passaggio dal campanile ai riflettori non è un’evoluzione naturale, ma una mutazione sistemica: il calcio che immaginano non è più un luogo, è un contenuto. Pensa all’odiosa e ributtante puttanata della Kings League: vogliono che il calcio diventi quella roba lì.
Vi invito a leggere la tesi di laurea di Alfredo Alfonsi (la trovate in rete), se vi interessa davvero il futuro del calcio. Le sue conclusioni sono una sentenza: il calcio ha smesso di essere sport identitario nel momento in cui ha accettato di diventare piattaforma. Laddove c’era il corpo sociale del tifoso, oggi c’è il profilo utente.
Laddove c’era la comunità, oggi c’è il segmento. Il tifoso non è più soggetto, ma dato. Non è più cittadino, ma consumatore. Non è più parte di un racconto collettivo, ma bersaglio di una strategia di engagement. E il club, di conseguenza, non è più un’istituzione territoriale, ma un asset da valorizzare, un brand da scalare, un contenitore da monetizzare.
In questo scenario, le squadre medie - tra cui il Genoa spicca come modello perché il suo fascino è proprio l’appartenenza a prescindere dal risultato - non sono solo marginalizzate: sono disinnescate.
Non contano più per ciò che rappresentano, ma per quanto convertono. Il loro valore non è nella storia, ma nel bacino. Non nella fedeltà, ma nella scalabilità. E se non convertono, vengono ridotte a incubatori, a comparse nel grande spettacolo dei riflettori. Il rischio, come sottolinea la tesi, non è solo economico o sportivo: è culturale. È la desertificazione del calcio come spazio di senso, la sua trasformazione in flusso indistinto di contenuti ottimizzati.
Ma non tutto è perduto: milioni di persone sono ancora disposte a difendere spazi di appartenenza che non siano solo monetizzabili. A restituire centralità al tifoso come soggetto politico, non come cliente fidelizzato. A immaginare modelli di governance che non siano solo efficienti, ma legittimi. È un invito che non chiede nostalgia, ma visione. Non romanticismo, ma conflitto.
Non chiede di tornare indietro, ma di scegliere da che parte stare: dentro lo stadio, fuori dal protocollo. Prima che sia troppo tardi.