Genova, settembre 1969, il Cagliari gioca in casa della Samp e Beppe Ferrero (ex rossoblù) fa da intermediario fra lui e Faber.
La luce di quell’incontro è più probabilmente un taglio di luce a notte inoltrata, una penombra saturata dal fumo di infinite sigarette.
Il racconto di quella notte, di quelle vite ( da cui è stato anche realizzato “Amici fragili”, spettacolo teatrale di Federico Buffa). Di quella notte si sa pochissimo. Gigi Riva ha sempre detto: “Per la prima ora e mezza non abbiamo detto una parola, solo fumato e bevuto whisky”. Ma a un certo punto la conversazione sgorga. Si lasciano all’alba, con uno scambio chitarra contro maglia. Non si rivedranno mai più.
Attorno al Cagliari di quegli anni, al suo alone epico, alla sua simbologia rivoluzionaria incarnata da Riva e Scopigno, ruotano gli irregolari di tutta Italia. Il Cagliari è la squadra dei diseredati, dei bohémien, degli intellettuali controversi. Qualcosa di più di una squadra
L’incontro Riva-De André sembra la sublimazione di questo concetto, anche se Fabrizio è sempre rimasto un genoano di ferro, che mai ha pensato di abiurare. Burberi, taciturni, anarchici, solitari, nottambuli, geniali, tormentati. Sono tanti i punti di contatto tra il calciatore e il cantautore, tra cui l’amore condiviso per la stessa donna: la Sardegna. Eppure Sardegna vuol dire tante cose, spesso tra loro molto diverse. De André apparteneva a un’idea dell’isola rurale e antica, Riva alla sua dimensione urbana e marinara.
Sergio Atzeni la Sardegna avrebbe voluto raccontarla tutta, e i sardi uno per uno. «Finora la zona maggiormente descritta nelle opere letterarie è la Barbagia», diceva lo scrittore, «e si capisce perché: lì gli uomini sono più alti di quelli del Sud, sono più forti, sparano. […] A Nuoro nasce solo gente intelligente, mentre a Cagliari nascono più bassi e un po’ più scemi, è una città torpida che ama soprattutto mangiar bene». Riva a Cagliari ha imparato a sfilettare il pesce. De André, in Gallura, ad allevare il bestiame. «Hanno amato la stessa donna, vero», conviene Buffa. «Una donna che non era del paese loro. Li distingue però l’origine sociale delle famiglie, Riva arriva da una famiglia di operai, De André dalla buona borghesia genovese. Ed è straordinario che il punto d’arrivo sia invece molto simile».
Simile al punto che il bomber ritrova se stesso nelle parole di Faber in “Amico fragile”.
Le parole di quella canzone sono un manifesto anticonformista, c’è dentro un fortissimo sentimento antiborghese». Anche se il pezzo che Riva amava di più è Preghiera in gennaio, scritta di ritorno dal funerale di Tenco. «Il fatto che Fabrizio scriva quel testo in quell’occasione, e che Gigi la ritenga la cosa più bella mai scritta sull’amicizia, è la base su cui poggia la serata del ’69. Tenco e Lorenzo Bandini, pilota Ferrari, erano le ossessioni di Gigi. Era attratto dai giovani che gli dei chiamavano presto», diceva Buffa.
Buffa è un uomo che conosce il rispetto, non li chiama Gigi e Faber, li chiama Luigi e Fabrizio.
«Prandelli mi ha raccontato che in Nazionale, quando qualcuno pronunciava il nome di Riva, la gente si alzava in piedi». Circostanza che a Riva avrà strappato qualche risata, lui che ha sempre minimizzato le cose che lo riguardano, il vestito da supereroe che si è ritrovato cucito addosso. Lui, eroe tragico che ha amato gli eroi tragici. «Per un certo periodo si è comportato in un modo che poteva succedere anche a lui. La passione per la velocità, le corse solitarie in macchina. Boninsegna racconta di quando Luigi lasciava i pranzi della squadra sulla sua Alfa. I compagni si guardavano come a dire: speriamo ritorni». E invece la vita lo ha trasformato nel prototipo del mito che invecchia, e che porta i segni, umanissimi e spietati, con enorme dignità, del tempo che passa. «È incredibile o no?». Lo è, come incredibili sono queste due vite fotografate in una notte di settembre, sotto la luce della Lanterna.