Faccio fatica a rispondere. Perché?
Quando, bambino, ho cominciato a tifare Genoa, c'erano due squadre che avevano vinto 9 scudetti e puntavano alla stella: il Genoa e la Juve.
Questo primato e questa illusione sono durati fino al 1958, quando la Juve, forte di cinque giocatori d'attacco e un solo mediano, si è appropriata del decimo.
Era un mondo (anche) del calcio impensabile oggi. Si giocava la domenica e ogni partita era un evento, atteso come una battaglia decisiva. Si andava allo stadio con il vestito buono e se uno avesse indossato una maglia da football sarebbe stato additato come un buffone. Il calcio di allora era soprattutto letteratura, epos e mito. Se ne scriveva e se ne raccontava e la differenza tra realtà e suggestione era molto esile. I giocatori restavano in forza alla squadra per anni e si identificavano con la maglia. La RAI, prima che venisse inventato Tutto il Calcio Minuto per Minuto, trasmetteva per radio solo il secondo tempo di una partita. Se (raramente) toccava al Genoa ci si telefonava per avvisare e ci si disponeva religiosamente davanti all'apparecchio, ipnotizzati dalla voce di Nicolò Carosio. Non esiste oggi nessun calciatore che possa reggere il confronto affettivo con quelli di allora. Il termine "religione" non è a caso. In un mondo senza (quasi) televisione, telefonini e computer, il tempo libero era scandito da racconti e i racconti sul Genoa diventavano leggende. Mio zio mi descriveva con voce rotta dall'enfasi "la famosa rovesciata alla Becattini". Era una cosa confusa, ma meravigliosa. Fosco metteva le mani a terra e, facendo forza sui polsi, si inarcava per respingere al volo la palla, che volava come un missile per decine di metri. Ero piccolo, ma già allora non capivo che senso avesse quella complicata acrobazia per respingere un pallone che poteva essere respinto in qualunque altro modo, ma tant'è: la "rovesciata alla Becattini" è rimasta scolpita nel mio immaginario. Quando nel 1959 vidi per la prima volta Becattini dal vivo, a San Siro, in un Milan-Genoa finita 2-1 per i rossoneri, ad ogni momento mi aspettavo di vedere la famosa rovesciata, anche se in fondo non ci credevo. Vidi anche, tra gli avversari, la classe verticale di Niels Liedholm, che ho rivisto molti anni dopo a Marassi nei panni di Thiago Motta. Un altro mondo, senza tornelli e tessere del tifoso, tutti mischiati a tirarsi bestemmie e qualche spintone subito represso. Uno che ha esultato per un gol mitico di Piqué a San Siro, quando i giocatori non ti sembravano ragazzi, ma uomini maturi, non potrà mai emozionarsi allo stesso modo nemmeno di fronte alle giocate più funamboliche di un qualche pischello con procuratore, veline e conti in banca. Ho poi scoperto, poco prima della sua morte, il segreto della famosa "rovesciata alla Becattini". Mio zio aveva un talento per il disegno e nel suo tempo libero copiava a matita e carboncino, con grande maestria, le foto sgranate dei giornali, trasformandole in ritratti. Ne aveva a dozzine. Giocatori del Genoa e cantanti d'opera, le sue passioni. Così vedevi Barison accanto a Maria Callas. Bene, uno di questi disegni riproduceva Becattini con le mani a terra, inarcato per respingere il pallone. In origine era sicuramente una foto presa dalla Gazzetta e sicuramente era la fase di caduta di una normale rovesciata ormai conclusa. Nella fantasia di mio zio era invece la preparazione di un gesto atletico unico e irripetibile, così come mitico è il Grifone, con ali d'uccello e artigli da leone. Tutto era mito, attesa e racconto. Letteratura, appunto.
Ecco perché faccio fatica ad affezionarmi allo stesso modo ai calciatori moderni. Li posso ammirare e anche amare, ma come comuni mortali. L'emozione del Valhalla Rossoblu, con gli eroi immacolati, nella vittoria come nella sconfitta, era altra cosa. E solo a ricordarlo devo trattenere le lacrime.