Daniele De Rossi ha un vantaggio ambientale
È cresciuto in una piazza che, per certi versi, è la versione esasperata della nostra: più grande, più mediatica, più mitologica. Ma simile. Roma e Genova condividono una dinamica profonda: quando si identificano con chi guida, diventano travolgenti. Quando si sentono tradite, diventano tossiche.
Chi cresce lì, se sopravvive, sviluppa anticorpi. Impara a distinguere il consenso dalla verità, l’amore per la squadra dalla manipolazione—vero ciornalisten genovesen?—l’applauso dalla trappola.
A Genova come a Roma, l’identificazione è totalizzante. Non esiste il mezzo tono. Non esiste il tempo per costruire. Esiste solo il presente emotivo, il giudizio istantaneo, la memoria selettiva. Addirittura le ricostruzioni a geometria variabile, di chi ti urla in faccia X dopo aver sostenuto Y.
De Rossi questo lo sa. Lo ha vissuto da giocatore, da bandiera, da figlio di una città che ti abbraccia e ti soffoca nello stesso gesto. E proprio per questo, oggi, può sorprendere: perché, a differenza di quanto si potrebbe pensare superficialmente, non cerca di piacere. Cerca di funzionare.
Il suo vantaggio ambientale è proprio questo: non si illude. Non pensa che basti dire le cose giuste. Sa che bisogna fare le cose giuste, e farle nonostante l’ambiente. Sa che la comunicazione non è un’arma per sedurre, ma uno scudo per proteggere il lavoro. Fino a quando ne ha avuto voglia e capacità operativa, il vero talento di Mourinho.
Alla Società, oltre al coraggio di mettere i soldi—o i soldi, punto—manca questo: la capacità di sentire l’ambiente senza blandirlo ma nemmeno ignorarlo per paura di esserne travolti. Avremmo bisogno di figure che non rincorrano il consenso, ma lo strutturino. Come da intervista: “che dicano la verità”.
Il fuoco dell’identificazione è potente. Ma non basta, e chi è cresciuto nel caos lo sa molto bene.
In culo alla balena, Daniele.