4Mazzi L’usura lavorativa è determinata da elementi non correlati alla retribuzione.
L'usura è propria di tutti i lavori che sono lontani dalle aspirazioni, dai sogni e dalle inclinazioni dei cittadini che lavorano.
Questo è il dato certo da cui partire.
L'abolizione della schiavitù è stata una bella dichiarazione di principio, dopo di che è stata reintrodotta legando i destini dei cittadini a un salario commisurato, nella gran parte dei casi, alla sopravvivenza, misurata sulla base del reddito medio di ciascun paese. 1500 euro laddove per avere un tetto sopra la testa, pagare le spese essenziali (elettricità, acqua, eccetera), vestirsi e sfamarsi, ne servono 1400; 500 euro, laddove per sopravvivere ne occorrono 450. La dipendenza da un salario che garantisce la sopravvivenza induce quasi tutti a perseverare nella difesa del posto di lavoro, senza competere per opportunità migliori ma incerte e spesso anche a rinunciare a battaglie che potrebbero mettere a rischio il miserabile status quo.
La sintonia tra la personalità individuale e il proprio lavoro è sempre stata alla base del pensiero sociale, quando ancora queste tematiche erano devolute ai filosofi invece che ad economisti miopi o, peggio, a ignoranti prestati alla politica.
La Repubblica di Platone forniva una parziale risposta, auspicando che ciascuno svolgesse i compiti per i quali si sentisse portato, arrivando all'estremo (apparente) di affermare che le donne e gli uomini sani e belli facessero tanti figli, ma che poi venissero allevati in strutture dove agivano donne portate a prendersi cura dei minori e uomini in grado di educarli con la cultura e con l'esempio.
Poteva essere una base su cui interrogarsi, immaginando quale tipo di Stato potesse garantire un modello sociale di questo tipo. Ma l'Europa, e più tardi la colonia fondata in America dai fondamentalisti espulsi e dagli avventurieri che si sono impossessati con la forza delle terre, non ha attinto dalla cultura classica, greca o latina, ma piuttosto dal modello oscurantista del monoteismo ebraico, più funzionale, coi diversi aggiustamenti, a supportare una visione autoritaria del potere.
Marx ha affrontato il tema, prefigurando una società comunista, al culmine del processo di realizzazione del socialismo, dove, garantite in modo egualitario le risorse essenziali, i cittadini lavorasseso per loro gusto e in base alle loro inclinazioni in un contesto solidale. Purtroppo non si è mai potuto verificare se l'ipotesi fosse concretamente realizzabile perché storicamente non si è mai superata la fase del socialismo reale, che si è poi quasi sempre trasformato in un dominio autoritario e tirannico della cosiddettà avanguardia che avrebbe invece dovuto assicurare l'evoluzione del processo.
Il liberalismo, paradossalmente, non era molto lontano da un modello vistuoso. Quando la teoria liberale apparve, in contrapposizione all'autoritarismo conservatore, propugnò un principio rivoluzionario: l'uguaglianza dei punti di partenza, vale a dire la competizione per collocarsi nella scala sociale in base ai propri meriti. Anche questo principio, come quello dell'abolizione della schiavitù, divenne presto un'utopia, spogliato di ogni valore proprio da coloro che si sono fatti paladini delle idee liberali. Perché funzionasse bisognava infatti avvalersi di regole che azzerassero i privilegi acquisti e trasmessi dalle generazioni precedenti, in modo che i figli scemi dei ricchi cominciassero da zero (o quasi) competendo con i migliori virgulti della loro generazione nei vari campi. Diciamo che il principio liberale dell'uguaglianza dei punti di partenza avrebbe avuto bisogno, per funzionare, di un'avanguardia leninista al potere che fissasse e facesse rispettare in modo virtuoso le regole della meritocrazia.
Si potrebbe disquisire all'infinito. Ma torniamo alla bassa attualità,
La situazione attuale è senza vie d'uscita. La rivoluzione è impossibile laddove non ci sono simboli viventi del potere, che in molti casi sono solo prestanome o prestafaccia dei potentati reali occulti. Il lavoro è disumano, nel senso che è legato al profitto. E finché il lavoro è una componente del meccanismo che genera profitto, il lavoratore è una pedina intercambiabile senza identità. La miopia politica continua a enfatizzare il lavoro rivestendolo di significati insensati. Addirittura l'Italia continua a mantenere nella Costituzione il fondamento della "repubblica fondata sul lavoro", anziché, per esempio, sulla solidarietà o sul perseguimento della felicità dei propri cittadini. I padri fondatori sono assolti, dato che si ispiravano al tardo positivismo dell'industrializzazione e della riconversione delle masse in una tipologia di lavoro modellata sulla vecchia civiltà contadina. Ma, per scarsa attitudine alla filosofia, trascuravano un elemento: che il lavoro è da sempre la maledizione della specie umana, che deve assicurarsi con sacrificio e sudore i mezzi di sussistenza. Il progresso, mitizzato e sbandierato da più parti, avrebbe dovuto tendere all'abbassamento dei sacrifici necessari per garantire la sopravvivenza e a riscattare il maggior numero possibile di persone dalla maledizione del lavoro, a cominciare da quello usurante. Cosa che in parte è stata fatta, ma con lo sguardo orientato sul profitto e non sul concetto filosofico, umanistico e sociale del riscatto dal lavoro. E così si continua a santificare il lavoro anche se il lavoro non c'è più. Nel 700 due soli paesi lungimiranti, la Svizzera e la Repubblica Veneta, avevano concepito di assicurare una paga a chi non lavorava, o perché non trovava lavoro o semplicemente perché non aveva voglia di lavorare. Una specie di reddito di cittadinanza motivato da due considerazioni: che se venivano finanziati, questi soggetti non delinquevano, ma soprattutto che, se ricevevano una paga, diventavano, in pace e in guerra, i principali sostenitori e difensori della Repubblica.
Sarebbe il caso che gli Stati cosiddetti "democratici" cominciassero a prendere seriamente in considerazione la necessità di pagare i propri cittadini per non lavorare. Da una ricerca del Politecnico di Zurigo, risalente agli anni 90, emergeva che le grandi aziende obbligate a non ridurre il personale per evitare problemi occupazionali allo Stato (e di conseguenza remunerate dallo Stato) applicavano la tecnologia industriale in una misura inferiore al 30%, perché se avessero applicato il 100% della tecnologia disponibile (e aumentato di conseguenza i profitti) avrebbero dovuto licenziare più dell'80% del personale, soprattutto la manodopera. Nella stessa circostanza ho personalmente assistito alla dimostrazione di un industriale tessile che, con un semplice modem, controllava tre complessi industriali, uno in Italia, due in Asia, dove operava un solo dipendente per fungere da guardiano e ovviare a qualche possibile panne elettrica. Il rapporto d'impiego della manodopera nell'industria tessile, dagli anni 60 (1960) agli anni 90 (1990), era di 2000 a 1. Duemila a uno. Il lavoro è un entità che in gran parte sopravvive, per esigenze politiche, regolato sui parametri tecnologici e sociali del secolo scorso. Implementando la tecnologia, il lavoro, che già scarseggia, si ridurrebbe in misura esponenziale, mentre aumenterebbe a dismisura il profitto. In società fortemente basate sui consumi sarebbe dunque ragionevole agire sui profitti per pagare la gente facendola rimanere a casa, con tutte le conseguenze sociali e culturali conseguenti. Nessuno ha per ora la forza di abbozzare una riforma globale di questo genere. Così gli immensi profitti generati dalla rivoluzione tecnologica "controllata" finiscono nelle tasche di pochi e la disoccupazione conseguente viene gestita con "qualcosa ci inventeremo" in modo che non superi il 25% che gli studiosi indicano come limite oltre il quale l'ordine sociale è a rischio.
Aggiungo, in questa disperante analisi d'impotenza e di sudditanza, che l'Italia vergognosamente tende ad accreditarsi come potenza europea, al pari di Francia e Germania, con un economia disastrata basata sullo sfruttamento dei lavoratori di ogni ordine e grado. Negli ultimi 20 anni, in Francia i salari sono aumentati del 33%, in Germania del 24%, in Spagna del 22%. In Italia sono diminuiti dello 0,5%. Non ci sono medici per coprire le esigenze dei Pronto Soccorso. A Ventimiglia, per un servizio logorante di 8+4 ore, un medico di Pronto Soccorso viene pagato 1500 euro. A Mentone 3000. Perché mai dovrei farmi sfruttare in Italia, quando, con buona pace di Ianna, a Mentone guadagno il doppio per lo stesso mestiere e a Montecarlo ancora di più? Perché fare l'insegnante a Varese, guadagnando fuori ruolo 1400 euro, quando a mezzora di strada, in Svizzera, ne guadagno 6000? E perché, in possesso di un Master, dovrei fare il ricercatore universitario a Milano, per 1200 euro coi quali neppure mi pago l'affitto, quando in Olanda, Danimarca, Israele, Canada, si attivano per offrirmi molto di più (Olanda: appartamento, 3500 euro, partecipazione a pubblicazioni e convegni, percentuale sui proventi delle ricerche, quando in Italia i baroni neppure mettono il tuo nome in calce alle pubblicazioni)?
Come l'eroina mise fine alle contestazioni di fine anni 60, oggi si usa la realtà virtuale per tenere a cuccia la gente. Ne inventano sempre una. Nel Candido di Voltaire, sul quale bisognerebbe giurare anziché su quel libraccio assemblato da seminalfabeti, la Bibbia, adottata, come il Corano, dagli idolatri di mezzo mondo, al termine di un excursus sugli ideali e sulle illusioni ottimistiche dell'umanità, si conclude che la cosa migliore da fare è "occuparsi del proprio giardino". Una conclusione che appare consolatoria, ma che è anche fondamentalmente disperante.